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Derrick Claude Frederic De Kerckhove

Design: la pelle della cultura

01 gennaio 2017 — 6 minuti di lettura

Sono Derrick de Kerckhove, visiting professor al Politecnico di Milano, e presso l’Università di Toronto sono stato direttore del Marshal Mc Luan Program. Ho lavorato con Marshal Mc Luan per dieci anni, ho tradotto due libri e mi sono occupato dell’organizzazione di seminari; lavorare con lui è stato un insegnamento anche per comprendere il ruolo del Design.

Derrick de Kerckhove, lei è uno dei più conosciuti sociologi di Internet a livello internazionale. Già allievo di Marshall McLuhan, docente universitario a Toronto e a Napoli, studia da anni gli effetti della rivoluzione digitale nei comportamenti umani e nell’interazione fra persone. Quest’anno è visiting professor alla Scuola di Design del Politecnico dove tiene un corso di Social media. Ci spiega in breve il significato dell’espressione "In the electric age, we wear all mankind as our skin" di Marshall McLuhan?

Questa, la più profonda intuizione di McLuhan, lega strettamente tutto l’ambiente elettronico, adesso digitale, al corpo come estensione dello sistema nervoso centrale. Internet delle cose, Cloud Computing, Big Data, Social Media tutti insieme sostengono una continuità corpo-mondo: l’elettricità ci porta ad essere tutti collegati come una singola pelle sensibile di esseri tutti connessi. La pelle sente, la pelle copre, la pelle comunica. La sensibilità della pelle si amplifica e si riproduce attraverso le connessioni, internet, i satelliti e tutto ciò ha avuto inizio nell’era elettrica. Io mi riferisco a internet come a un sistema limbico, quello che porta emozioni nel corpo. Ogni volta che apprendiamo una notizia drammatica, una strage, una catastrofe, proviamo una colpa, una sensazione fisica. In questo caso parliamo di una reazione puntuale ma se allarghiamo questo concetto al fatto che siamo invasi da notizie in tempo reale, comprendiamo che questa immediatezza fa la differenza e ci tocca come la pelle. L’umanità diviene come un solo corpo coperto di un sistema d’informazione e di sensazione generalizzato e esteso a tutto il pianeta.

In ogni periodo il design influenza più di un singolo oggetto o linea di prodotti e porta quindi allo scoperto quella che si potrebbe definire "l’armonia della cultura". Il design, in quanto forma esterna visibile, auditiva o strutturale di manufatti culturali, si rivela come "la pelle della cultura". Ci spiega le implicazioni? Come influisce sulla cosi-detta “Crosta della realtà”?

La pelle della cultura ha due sensi, il primo neurologico, sulla funzione della pelle come sistema di protezione, di comunicazione, d’integrazione e di auto-identificazione del corpo. In questo senso la nostra pelle oggi si rapporta alla rete, ai satelliti che funzionano come una copertura tecnica e possiedono le stesse funzionalità dell’organico. Il secondo senso lavora sulla sensibilità, altra funzione della pelle che registra cambiamenti di temperature, ferite, dolori, piaceri ecc. Questo aspetto si manifesta nella viralità istantanea delle comunicazioni della rete. Mac Luan aveva assolutamente ragione e questa intuizione è anche un’ispirazione per il mondo del Design. Il design è l’interpretazione della tecnologia ed il suo impatto sul corpo. La crosta della realtà è il prodotto di sedimentazioni di design culturale.

Il design, in quanto parte della pelle della cultura, è un insieme di tendenze e di “meme” che si ripetono in varie media e settori e spesso hanno da fare con qualche nuova tecnologia. Ma trovo che una bella metafora sia quella della musica: la tecnologia è uno strumento musicale che quando si suona produce delle armonie di design. Pero anche il design influisce sul suono. Nuove tipologie di suono succedono l’una all’altra secondo le caratteristiche degli strumenti che le producono, esattamente come un periodo di rock succede all’era del jazz, e poi subentra la disco, poi il rap e la musica house, tecno o rave, e cosi via.

Oggi con la pervasività della digitalizzazione e le forme di progetto post industriali c’è un’esplosione del design che travalica il suo limite tradizionale di design industriale. Il design non è più applicato solo alle forme concrete ma diviene sempre più sociale e cognitivo. I sensi esternalizzati, come aveva osservato McLuhan, producono nuovi modi di espressione attraverso il multimedia, la realtà virtuale, la realtà aumentata, la stampante 3D, tutti strumenti audiovisuali, fino al transmedia e cosi via. In questo senso il Design si estende in alcune direzioni, non veramente nuove ma almeno recenti, il ciberdesign, il metadesign e l’innovazione sociale.

Mi interessa il metadesign in particolare: le grandi sfide del design oggi non sono sulla produzione di oggetti ma sulla produzione della produzione di oggetti. Come dare all’utente un sentimento di empowerment, di possibilità di creare il suo percorso, il suo oggetto? Se invece pensiamo al cybergdesign capiamo il ruolo del design nel gestire l’interattività in tempo reale e ridefinire il servizio, l’interazione e la comunità di riferimento. C’è un bisogno di una progettualità cognitiva molto forte nel mondo del software. Le configurazioni della comunicazione legate alle piattaforme destinate all’uso pubblico sono disegnate secondo obiettivi molto specifici: Twitter non collega la gente come lo fa Facebook. Twitter funziona perché risponde a una domanda aumentata dall’istantaneità.

Ma forse sul piano del design le vere novità, per me, continuano ad emergere dall’innovazione sociale. Questo tipo di iniziativa non solo ne richiede l’impiego ma spesso si attiva proprio a partire dal Design, iniziando dal coinvolgimento delle comunità in un progetto di utilità collettiva, per esempio. L’innovazione sociale richiede un tipo di design che è il destino del design: creare armonia, creare armonia sociale! Abbiamo molto bisogno di questo tipo di contributo.

Nel tempo della connettività come si riconfigura la relazione fra l’identità e la dimensione collettiva? Come può incide questa relazione nelle pratiche di progettazione condivisa e partecipata nel modo del design?

La connettività fa passare l’uomo occidentale dal privato al pubblico, dall’opacità alla trasparenza, dal passato al real-time. La sfida del design della moda, e di modi di vivere è di interpretare questo cambiamento in tal modo di renderlo tollerabile. Basti pensare che, in alcuni contesti, è come se vivessimo nudi in strada come già succede nella smart city che spia ogni cittadino (tipo Singapore). Le mente contemporanea si svuota dei contenuti scaricabili, dei ricordi, della memoria a lungo termine e si tiene invece allerta per confrontare le domande moltiplicate del presente. Il culto della privacy, secondo me è destinato a sparire. La dimensione collettiva sarà regolata dai Big e altri data e il mondo sarà popolato da tribù istantanee. Parte della progettazione del design dovrebbe orientarsi all’innovazione sociale per facilitare questo processo, o forse, per dir meglio, ridurre i traumi della transizione.

Il design trae molti benefici dalla condivisione e dalla co-progettazione senza essere frenato dalla distanza o dall’attesa di riscontro. Le collaborazioni sono sempre più internazionali grazie alle connessioni di rete, ai network di lavoro e agli strumenti molto precisi di simulazione. Inoltre, c’è il crowd-sourcing che amplifica le potenzialità di partecipazione ad un pubblico ancora più vasto. Un altro grande principio guida del nuovo design è quello di creare comunità ovunque sia possibile e ovunque serva. Sicuramente questo mette in primo piano i progetti di comunicazione: le app sono una forma di design connettivo. Contano sulla formazione di comunità di utenti.

Qual è in questo scenario la reale importanza della trans-disciplinarietà e della contaminazione con le discipline umanistiche per il mondo del Design?

Fondamentale. Oggi la parola è alla collaborazione. L’individuo geniale appartiene ai tempi enciclopedici di Da Vinci e di Galileo e già dopo l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert ha iniziato a perdere importanza e significato. Il problema oggi è che la gente conosce meno cose perché tutto è disponibile on-line-real-time-on-demand. La collaborazione transdisciplinare è fondamentale quando gli specialisti non hanno più una cultura generale.

A che serve l’intelligenza connettiva? L’intelligenza privata, se ha molti contenuti, diverse conoscenze e una buona connettività interna, può essere una fonte inventiva all’interno del gruppo. Il gruppo non dispone di molti contenuti oggi, ragazzi senza storia, però non senza curiosità né velocità di apprendimento. Allora è meglio unire più menti insieme che lasciare la responsabilità a una persona sola.

In fine un suggerimento ai mondi accademici: come si potrebbe agire per una reale internazionalizzazione, non solo in termini di apertura verso altre istituzioni, ma anche in termini di appropriazione e diffusione nella nostra didattica e ricerca di scenari sovranazionali, di idee e di modelli che stanno scrivendo i percorsi di attualità e di innovazione nel mondo?

La mia classe al Politecnico è più internazionale di quelle che avevo in Canada, che aveva peraltro una componente dominate di Italiani (insegnavo al Collegio Cattolico dell’università di Toronto). Questo è il miglior modo d’internazionalizzare il contesto accademico: creare correnti di passaggio, scambi, farlo on line e off line in convegni internazionali professionali. Questo contribuisce sicuramente a dare un brand, una specificità al Politecnico, già abbastanza alto nelle classifiche internazionali senza dimenticare che Milano, comunque, beneficia di una reputazione mondiale come capitale della moda e del design industriale e domestico.