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Design, tecnologia e società

25 aprile 2022 — 3 minuti di lettura

Io sono Paolo Volontè, un sociologo che lavora al Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, e oggi ho portato con me questo strano oggetto dal design un po’ High Tech, ma anche very low tech.

Si chiama Friend – amico in inglese – e si chiama cosi non perché ci possa fare grandi conversazioni sul senso della vita. Lui la vita te la salva. Infatti è uno strumento che viene molto usato in arrampicata sportiva su roccia, per assicurare chi arrampica, per fermare le cadute e per aiutarlo anche a muoversi se è il caso.
Funziona con delle camme, che sono dei tiranti e delle molle che consentono a questo oggetto di variare il suo volume. Per cui tirando, il suo volume si riduce, e rilasciandolo riprende il suo volume originale. Viene inserito nelle fessure e spaccature della roccia e poi, quando vengono rilasciate le camme, il friend si allarga, fa pressione contro la roccia e oppone una resistenza molto forte alla trazione, riuscendo a tenere anche un corpo in caduta libera.

Il Friend è molto interessante, non solo per il suo design e il modo in cui viene usato, è anche interessante per la sua storia. Infatti non è il frutto di un lavoro di ricerca scientifica particolarmente avanzata o di lunghe ricerche da parte di designer o di gruppi/team di ingegneri nelle industrie tecnologiche.
Friend è stato sviluppato negli anni 70 da un arrampicatore abbastanza famoso – Ray Jardine – che era insoddisfatto degli strumenti di assicurazione che si usavano in quel tempo, e ha pensato lui come si poteva trovare e sviluppare uno strumento di assicurazione che funzionasse meglio.

Insomma, il Friend è per noi un ottimo esempio di come spesso gli artefatti tecnologici non sono il frutto del lavoro di specialisti dell’innovazione tecnologica e della ricerca, ma sono pervasivi della vita quotidiana, nascono dalla vita quotidiana delle persone, spesso dal basso, con attività che chiamiamo di co-design/co-creation, dove cioè le persone che usano gli oggetti, li sviluppano e li adeguano alle loro esigenze.

La tecnologia non è un settore economico separato, una riserva di azione e di caccia per specialisti del’innovazione tecnologica. La tecnologia oggi è pervasiva in tutti i suoi aspetti, come l’aria, l’acqua, i colori e i suoni; qualsiasi cosa noi facciamo è impregnato di tecnologia oggi.

Io e i miei colleghi lavoriamo in un’università tecnologica, anzi diciamo in un’università che appartiene al novero delle principali università tecnologiche mondiali. Alcuni anni fa, con due mie colleghe filosofe, che come me si sentono due mosche bianche all’interno del Politecnico di Milano, ci siamo guardati intorno e ci siamo detti: “Non è possibile sviluppare tutta questa conoscenza tecno-scientifica all’avanguardia, senza sviluppare nello stesso tempo un minimo di sensibilità, di attitudine a porsi domande critiche”, cioè ad una riflessione critica al dove porta questa tecnologia, quali conseguenze ha nella vita delle persone.

In un Politecnico come quello di Milano, didattica e ricerca non possono fare a meno di sviluppare accanto alle competenze propriamente dette, anche la capacità di tener conto, di rendersi conto, degli impatti che le tecnologie che vengono sviluppate hanno sulla vita delle persone, sull’ambiente che ci circonda, sulla società in cui viviamo.
Al Politecnico di Milano abbiamo allora fondato una unità di studi di scienza e tecnologia, che si chiama META, con un obbiettivo ben preciso, che è quello di portare nella didattica e nella ricerca del Politecnico, quindi di portare dentro il dna stesso della nostra università, la riflessione critica sulla tecno-scienza.

Da dove viene questa tecnologia che stiamo sviluppando? A chi serve? E chi invece può esserne danneggiato? Quali potrebbero essere gli impatti negativi che comporta questa tecnologia e che non sono immediatamente evidenti? E i benefici, quelli che porta, compensano eventuali impatti negativi? Siamo in grado di controllare questa tecnologia una volta che la abbiamo implementata come si dice? La conosciamo veramente? La conosciamo fino in fondo? Sappiamo come si comporta?

Grazie anche al supporto immediato e incondizionato che abbiamo avuto dalla governance di Ateneo, abbiamo perseguito negli ultimi tempi un programma di introduzione di nuovi corsi nella didattica, corsi come “etica della tecnologia”, “filosofia della scienza”, “tecnologia e società”, “società e sociologia dell’innovazione”, e abbiamo portato avanti una serie di iniziative nel campo della ricerca e nel campo della divulgazione per ragionare e riflettere sui processi della ricerca tecno-scientifica e della divulgazione dei risultati della ricerca.

META continuerà in questa direzione nei prossimi anni perché alla fine noi vorremmo che non accadesse più quello che succede oggi normalmente, cioè che designer ed ingegneri sviluppino i loro artefatti tecnologici che funzionano bene, mentre per filosofi e sociologi si trovino a dire, da grillo parlante: “No, questa cosa non va bene, non fa bene, non la faccio”.

Noi vorremmo che in futuro, quando la tecnologia sarà ancora più pervasiva di oggi nella vita di tutti giorni, gli stessi designer e ingegneri fossero fin dal principio (almeno a grandi linee), già consapevoli dell’impatto che quello che loro stanno sviluppando può avere sulla società, e possano quindi tenerne conto già nella fase di sviluppo, di progettazione, di immaginazione di un futuro.