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Stefana Maja Broadbent

Le sfide congiunte delle scienze sociali e del design

01 ottobre 2020 — 4 minuti di lettura

Mi chiamo Stefana Broadbent, sono da poco entrata a far parte del Dipartimento di Design come Professore Associato e posso definirmi una scienziata sociale.

Ho un dottorato di ricerca in Scienze Cognitive presso l'Università di Edimburgo, ma per tutta la mia carriera professionale e accademica sono stata una antropologa digitale; prima di entrare a far parte di Politecnico ho infatti tenuto lezioni di Antropologia digitale all'UCL di Londra.

Cosa fa una un'antropologa o una scienziata sociale come me quando collabora con il mondo del design?

In primo luogo penso che la disciplina che rappresento abbia ottenuto un buon risultato nell’aver fatto comprendere a progettisti e ingegneri che un prodotto o un servizio di successo debba essere guidato dalle esigenze e dalla comprensione degli utenti. L’attenzione all’etnografia, alla user research e alle analisi cognitive ha negli anni dimostrato di essere una precondizione di successo e un ingrediente essenziale del processo di progettazione.

«La collaborazione tra le scienze sociali e il design è davvero radicata nell'approccio centrato sull'utente. Tuttavia, non è sempre stato così.»

Agli inizi della mia attività, negli anni '90, mi sono occupata di progetti svolti in ambienti altamente complessi nell'aviazione, nelle centrali nucleari e nel controllo del traffico aereo. Come etnografo ero solita recarmi in questi ambienti complessi per cercare di capire come lavorassero gli operatori e come essi ragionassero e prendessero decisioni.

Passavo interi mesi a studiare il funzionamento dei sistemi e poi giorni e notti nelle sale di controllo con gli operatori che effettuavano le loro osservazioni cercando di capire come essi utilizzassero informazioni e quali fossero i parametri significativi che usavano per risolvere i problemi e svolgere i loro compiti. Lavorai quindi a stretto contatto con gli ingegneri e i progettisti che stavano ridisegnando le interfacce e i sistemi automatizzati degli impianti e dei sistemi di controllo cercando di trasmettere loro come gli operatori avrebbero utilizzato le informazioni fornite e come avremmo potuto cercare di ridurre al minimo i potenziali errori massimizzando le conoscenze e le capacità degli operatori.

Il nostro lavoro come scienziati sociali è stato parte integrante del processo di progettazione perché tutti i coinvolti si sono resi conto che il fattore umano era cruciale per la sicurezza e l’efficacia delle operazioni.

Con internet prima e l'adozione di massa dei telefoni cellulari poi, i problemi cambiarono radicalmente e si passò alla progettazione di servizi digitali e interfacce che fossero accessibili, inclusive, piacevoli, responsabilizzanti e in grado di migliorare la loro controparte pre-digitale.

In quel preciso momento il mio lavoro fu quello di comprendere alcune pratiche umane e sociali davvero fondamentali rispetto alla modalità di comunicazione delle persone e all’organizzazione delle loro conoscenze e dei loro ricordi. La comprensione poteva trovare risposta solo passando del tempo nelle case delle persone chiedendo loro i tenere diari e discutendo con loro della quotidianità.

Per me come scienziato sociale studiare queste pratiche quotidiane è stato affascinante ed ha fornito un quadro fantastico per aiutare i progettisti a costruire strumenti e sistemi che avessero senso per le persone e affrontassero esigenze, bisogni e vincoli culturali.

La collaborazione tra discipline credo si sia rivelata incredibilmente di successo se pensiamo a quanta strada hanno fatto gli strumenti digitali.

Dal 2000 in poi la ricerca degli utenti, la user experience, l’etnografia applicata sono diventate davvero parte integrante del processo di progettazione e dei processi di sviluppo digitale e i progettisti della user experience sono una figura di base del processo.

Attualmente siamo in una fase differente, con sfide molto diverse guidate dall’incertezza climatica, economica e sociale. È molto difficile prevedere come le cose evolveranno e quindi è ancora più importante pensare da vicino a come le persone decideranno di interagire e di come cambieranno le società.

Credo che gli scienziati sociali possano in questo clima contribuire fornendo non una serie di previsioni, ma alcuni indizi rispetto al funzionamento e alla collaborazione dei gruppi sociali e della società in generale.

Sempre più spesso pensiamo all'intelligenza collettiva e a come mobilitare e massimizzare la folta gamma di capacità e di conoscenze che le persone hanno in tutto il mondo, per contribuire a risolvere gli enormi problemi delicati che stiamo affrontando siano essi cambiamenti climatici o sociali.

Abbiamo l'infrastruttura digitale, abbiamo miliardi di persone online giorno, abbiamo brillanti esempi, classici come Wikipedia, che dimostrano che le persone possono collaborare da remoto per creare qualcosa di veramente utile, ed eccezionale, quindi la domanda è: “Cosa possiamo progettare ora per riunire le persone al fine risolvere i grandi problemi”?

Sono molto fortunata perché qui nel Dipartimento di Design ho seguito e lavorato principalmente con studenti di PSSD chiamati a progettare servizi nella loro interezza.

Questa disciplina abbraccia la complessità e il quadro generale e quando per esempio si progetta un servizio che mira a riunire diversi quartieri per ridurre gli sprechi alimentari o creare energia, è necessario analizzare i sistemi di distribuzione, i sistemi di produzione, le convinzioni delle persone su ciò che è buono e sano ed è facile osservare come il design e le scienze sociali siano connessi e come per progettare in modo efficace si debba capire come le azioni umane siano connesse e ramificate e da considerarsi parte di un intero processo.

Il mio oggetto è la carta, non solo perché mi ha aiutato a ricordare il mio discorso, ma anche perché è l'esempio perfetto di cognizione distribuita. Abbiamo molto poco nella nostra testa e tendiamo a mettere la conoscenza nel mondo, in manufatti, regole e regolamenti, edifici e tecnologia. I manufatti portano davvero conoscenza che è cultura storica e collettiva e ci evitano di dover reinventare tutto ogni volta che abbiamo bisogno di svolgere un compito.